Vittime della rivoluzione digitale.

La cyber-utopia degli anni novanta è stata distrutta da un’icona a forma di pollice alzato.
Roba che se me lo avessero detto ai tempi, mi sarei messo a ridere. Eppure è andata proprio così. È stata una distruzione capillare, tanto veloce quanto violenta, un fiume in piena che ha travolto tutto e tutti. Per primi, ha travolto quelli che nel web c’erano dall’era pre-smartphone. Quelli che, come me, avevano cantato inni di gioia rivolti alla rivoluzione digitale. Quelli che, come me, attendevano la fine del digital divide come fosse Natale ed erano convinti che il digitale avrebbe cambiato in meglio le nostre esistenze.
Siamo stati dei pirla.
Abbiamo commesso un errore pantagruelico, abbiamo creduto che il web e il digitale fossero degli strumenti positivi per le nostre vite.
Lo pensava anche Berners-Lee, creatore del web, ma nelle ultime interviste che ha rilasciato ci crede un po’ meno.
La situazione in cui ci troviamo è stata creata da una serie di elementi distinti, unitisi tra loro creando la tempesta sociale perfetta. Questi elementi sono sia sociali che tecnologici, sia psicologici che tecnici.
Andiamo per gradi.
Il primo elemento da prendere in considerazione è la tecnologia.
Le prime avvisaglie che la nave del web stava per veleggiare in un mare di merda ci sono state attorno al 2009, quando le vendite degli smartphone hanno superato (in modo definitivo) quelle dei computer.
Ciò significa che la maggior parte del traffico sul web (da allora) avviene da un dispositivo mobile e non da un dispositivo fisso.
Questo porta con sé almeno tre aspetti psicologici.
Uno: lo smartphone è molto più cool di un computer. Il computer è roba da sfigati, il cellu no. Il cellu è da sempre uno status symbol per cercopitechi con il colletto della polo alzato.
Quindi sono arrivati. Portando tutto a un Eternal September davvero eterno, senza alcuna fine.
Due: sul web, ovviamente, c’era già qualcuno. Non era vuoto. Sul web c’erano gli sfigati come me, che ci andavano con il computer, con un minimo conoscenza informatica e che avevano sviluppato un loro modo di essere sul web. Dalla netiquette allo stilare una prassi riconosciuta di comportamento digitale.
Tre: il computer sta su un tavolo, un cellulare no. Una volta avevi un distacco fisico dal web, oggi non esiste più. Ai tempi le connessioni avevano delle durate limitate, oggi no.
Ne consegue che la vita biologica si intreccia in modo completo con la vita digitale, nessuna decompressione, nessun momento di pausa forzata. Esistono parecchi libri che spiegano nel dettaglio quali mutazioni abbia portato tutto questo nella mente degli individui.
Quindi, dal 2009, arrivano in massa sul web quelli con gli smartphone. Non hanno nessuna conoscenza informatica, nessuna idea di che cosa sia la netiquette, etc… Gente che non aveva mai usato un motore di ricerca in vita loro.
E noi che cosa facciamo?
Commettiamo il più grande errore possibile. Li prendiamo per il culo. Come faceva abitualmente con i niubbi. Di fronte a tutto quel disagio e quella cercopiteca ignoranza, noi abbiamo reagito con il sarcasmo.
Tra l’altro, noi fighi del web della prima ora, non eravamo neanche così fighi. Abbiamo sottovalutato completamente il contesto dove ci stavamo spostando. Non più il web in senso assoluto, ma un sito aziendale specifico: Facebook, che proprio in quegli anni inizia ad appropriarsi delle vite degli individui.
Oggi è ormai evidente come il condividere il disagio per prenderli per il culo li abbia resi assolutamente invincibili.
Hanno vinto loro. Non c’è niente, di legale, che possiamo fare.
Lasciando da parte la legalità, si potrebbero minare i server e farli saltare, una soluzione anarco/luddista. Lasciali senza FB per un paio di mesi e vedi come cambiano le cose.
Vista in un’ottica utopica anni novanta, i social network, sono l’antitesi del concetto stesso di web. Non lo dico soltanto io, lo dice anche Jaron Lanier, che ne sa molto più di me.
Lui si concentra su aspetti molto complicati come il concetto di privacy e di vendita di dati personali. Complicati da far capire anche di fronte a un case history titanico come Cambridge Analytica. Ma la maggior parte degli utenti questa cosa continua a non capirla.
Facebook è un “sito aziendale”, lo dico in modo provocatorio sì, ma è un buon modo per far capire in che razza di casino ci siamo infilati.
La tanto attesa rivoluzione digitale è avvenuta via mobile, sostenuta dai social network e dalle agenzie di marketing on line, coadiuvata da un estremo individualismo, dicotomico rispetto al concetto stesso di “social”. Ha ingrossato le sue fila nel disagio, approfittando in modo politico della situazione di crisi internazionale.
Che colpa hanno le agenzie di marketing on line?
Questo è così semplice che te lo dico in venti parole:
I costi di una campagna web sono inferiori rispetto a una campagna tradizionale, per cui l’agenzia può intascarsi più soldi.
Ergo, più soldi diretti verso il web con tutte le conseguenze del caso.
Una su tutte: gli youtuber e gli influencer.
Che poi, onestamente, io non me la prendo nemmeno con gli youtuber e gli influencer, io me la prendo con il tessuto sociale che li ha fatti prosperare rendendoli necessari.
La rivoluzione digitale dicevo.
Come tutte le rivoluzioni, anche lei si sta lasciando alle spalle delle vittime.
Vediamole, non in ordine di importanza.

Il valore dei contenuti.
Noi tutti, 24 ore al giorno per 7 giorni alla settimana, lavoriamo gratis per i più grandi editori del mondo: Facebook, Youtube, Instagram.
La percentuale di quelli che riescono a farci dei quattrini è del tutto irrisoria rispetto al numero di utenti che postano contenuti senza ricevere manco un grazie.
Ogni fottuto giorno noi postiamo gratuitamente dei contenuti su delle piattaforme che grazie anche a quei contenuti ci fanno miliardi.
Se venisse la Rai o Sky a citofonarti, chiedendoti: lavoreresti gratis per noi?
Quanto tempo ci metti a mandarli a fare in culo?
Eppure con Facebook, YouTube, Instagram, Twitter e via discorrendo non è successo. Anzi. Siamo felici di condividere, postare, diffondere, contenuti nostri o di altri prodotti pro bono.
Questo ha portato a un deprezzamento verticale dei contenuti stessi, e lo ha fatto in due direzioni diverse.
Verso i creatori di contenuti: c’è gente che lo fa gratis, perchè ti devo pagare? Oppure: perchè ti devo pagare così tanto se posso trovare uno che fino a ieri lo faceva gratis?
Verso i fruitori dei contenuti: perchè devo comprare una rivista, se quella pagina di Facebook è così carina, divertente e gratis?
Uccidere il valore dei contenuti ha ucciso, a catena, tutta la filiera legata alla produzione e alla diffusione dei contenuti stessi.
Esempio: le edicole chiudono, e non tutti gli edicolanti che hanno chiuso sono diventati delle star su Instagram.
Domanda: che cosa dovevamo fare?
Evitare che i principali quotidiani avessero il tastino: “condividi su Facebook”, che è come mettere un cacciatore a fare il presidente del WWF.
L’altra cosa che dovevamo fare e che non abbiamo fatto era difendere i contenuti esattamente come i tassisti si sono difesi da Uber.
Lo so, sto dicendo una cosa impopolare e reazionaria, sto usando un esempio che starà sul cazzo a tutti, ma… Gli unici che si sono opposti a questa rivoluzione digitale i cui unici beneficiari stanno nella Silicon Valley sono stati i tassisti.
Ma del resto, leggo nei pensieri di molti, una corsa in taxi ha un suo valore, una frase, un aforisma o una battuta non ne hanno.
Ecco.
Se la pensi così ti meriti questo momento di merda, amico mio.

La realtà.
È riduttivo parlare della situazione in cui ci troviamo come era della post-verità. La verità è filosoficamente un concetto troppo soggettivo.
L’uso distorto dei social e del web ha portato a un progressivo e inarrestabile cambiamento della percezione della realtà. La realtà non è filosofica, è scientifica. Uccidere la realtà attraverso uno schermo è ancora più grave del superamento del concetto di verità. Chi se fotte della verità, qui ci siamo giocando la realtà stessa.
Come?
Vivendo le nostre vite attraverso un telefono.
Quanto è innaturale, non umano, alienante, vivere dietro uno schermo?
Si è passati in pochissimi anni dal vivere i social e il web nei nostri tempi interstiziali (tra un’attività e l’altra) al viverli oggi come tempo totale.
Guardati attorno. Ci sono persone che spippolano col telefono anche mentre vanno in motorino.
Non lo dico per ecumeniche questioni legate alla sicurezza, ti vuoi ammazzare? Cazzi tuoi. Lo dico perchè ti stai perdendo l’attimo amico mio. Non stai vivendo, stai spostando il tuo corpo dal punto A al punto B mentre quello che rimane del tuo cervello è impegnato a discutere della terra piatta, dei vaccini che poi ti fanno guidare i camion e che Kurt Cobain ha cancellato i concerti in Italia perchè gli sta sul cazzo Salvini.
Ci sono persone che infilano il cellu in un preservativo, se lo mettono al collo e se lo portano sul bagnasciuga mentre sono in vacanza, e non si tratta di neurochirurghi pediatrici in reperibilità, te lo assicuro.
La realtà viene costantemente smontata, riscritta, modificata dalle fake news, dalle bufale e dalle minchiate alle quali siamo sottoposti h24.
Non c’è mai stata un uso simile della propaganda, o un momento migliore per i trollaggi.
Come è possibile anche soltanto pensare, di spiegare a qualcuno che le cose non stanno proprio come crede se la realtà un cui vive lui è quella, supportata da camere dell’eco, algoritmi associativi, contenuti selezionati e quant’altro. Il tutto trasmesso da un dispositivo dal quale è impossibile staccarsi.
La realtà è morta.
Fine.
La realtà la abbiamo uccisa anche noi, noi che abbiamo creato contenuti per prendere per il culo gli idioti, e gli idioti hanno prese per vere le nostre burle.
Ora quei contenuti sono la realtà di qualcuno. Ma io li ho diffusi per scherzo! Eggià, sì, ma ormai il danno percettivo è stato fatto, ciccio.

Gente che muore in modo diretto.
Killfie è il neologismo creato per identificare tutti quelli che si ammazzano cercando di farsi un selfie figo. Tipo sporgendosi dall’auto, prendendo in faccia un treno, e via discorrendo.
Aggiungici quelli che si schiantano in macchina mentre leggono FB, o quelli che vengono stirati perchè attraversano la strada guardando lo schermo.
Ogni rivoluzione ha i suoi esponenti più idioti, lo capisco. Ma perlomeno, nelle rivoluzioni vere, sui cadaveri degli idioti ci scavalchi il filo spinato, con questi che ci fai?
Niente.
Faccio presente che hanno imposto l’uso obbligatorio del casco e delle cinture per molto meno.
E poi ci sono i suicidi. Come sta messo Ask.fm in merito di suicidi? Quante altre sedicenni in crisi da sedicenne si sono tolte la vita da quelle parti, ultimamente?
Ma noi non siamo responsabili dei contenuti che postano gli utenti!
Lo diranno, lo diranno sempre, tutte le merdine che fanno i soldini con il webbino.

Gente che muore in modo indiretto.
Correlata alla morte della realtà, ci sono delle morti indirette.
Tutti quelli che grazie ai cyber santoni si sono curati il cancro con la polvere di fata, tutti i bambini morti (e tutti quelli che moriranno) perchè non sono stati vaccinati, e via discorrendo.
L’utilizzo subdolo e truffaldino della libertà di pensiero ha portato a numerose vittime collaterali. Bisognerebbe iniziare a contarle e portare il conto a tutte gli assassini antivaccinisti e i killer delle cure alternative.

- fine prima parte -

4 thoughts on “Vittime della rivoluzione digitale.

  1. L’articolo è interessantissimo e mi ha portato molti spunti di riflessione, anche personali. Attendo la seconda parte.
    Vorrei farle una domanda: quando dice “Ne consegue che la vita biologica si intreccia in modo completo con la vita digitale, nessuna decompressione, nessun momento di pausa forzata. Esistono parecchi libri che spiegano nel dettaglio quali mutazioni abbia portato tutto questo nella mente degli individui” a quali testi si riferisce? Mi interesserebbe approfondire la questione: mi potrebbe fare qualche esempio?

    1. Ciao!
      Scusa se ti rispondo soltanto adesso, ma ero un po’ impegnato.
      Ecco qua un piccolo elenco di testi sul tema:

      La società dei selfie. Narcisismo e sentimento di sé nell’epoca dello smartphone
      di Luciano Di Gregorio
      Franco Angeli Editore

      La psicologia di Internet
      di Patricia Wallace
      Raffaello Cortina Editore

      Comunicazione sociale e media digitali
      di Roberto Bernocchi, Alberto Contri, Alessandro Rea
      Carocci

      Far web
      di Matteo Grandi
      Rizzoli

      A dieta di media. Comunicazione e qualità della vita
      di Gui M.
      il Mulino

      Homo Interneticus - Restare umani nell’era dell’ossessione digitale
      di Lee Siegel
      Edizioni Piano B

      L’assuefazione tecnologica. Metamorfosi del sistema uomo-macchina
      di E. Grassani
      Editoriale Delfino

  2. considerazioni in ordine sparso, più provocatorie che posso sennò magari (mi) annoio:

    -Non commento da cosi tanto su questo blog che non ricordavo neanche se usavo questo nick, ho dovuto controllare commenti di anni fa.

    - Mi pare fosse uno dei primi numeri di berserk in cui Miura scrive o cita una frase che dice più o meno: “Non abbiamo prove che esistessero mostri nell’epoca in cui si svolge questo racconto, ma sicuramente tutte le persone vivevano la loro vita come se il bosco ne fosse pieno”.
    Ma poi, dico io, abbiamo mai smesso di vivevere cosi? E se si, il tempo in cui la realtà è stata scientifica per un grande numero di persone e non per una strettissima èlite, non è comunque durato pochissimo? Un’eccezione alla norma? I miei nonni più acculturati avevano le elementari.

    -La generazione a cui fai riferimento, il primo internet insomma, dubito avesse le capacità e gli strumenti per fare i ragionamenti che facciamo oggi, col sennone di poi. Ma anche solo la coscienza di muoversi nella direzione che suggerisci, qualora avesse potuto divinare il presente che viviamo oggi. Io credo che i meccanismi siano più brutali: quando Larry Page e Sergey Brin compivano il capolavoro di programmare il loro modesto algoritmo di ricerca, ho il sospetto che sapessero cosa stessero facendo: un sacco di soldi, ovviamente, ma credo avessero un grado di consapevolezza un pelo superiore alla media dell’esperto del web e forse già vedevano incredibilmente più in la. Ma anche se cosi non fosse, e questo è l’importante, una volta che la loro capacità tecnica li ha portati in cima al mondo, hanno guardato in basso. Come sarà capitato a Zuckerberg, a Gates, e a chiunque tra le persone più banali che oggi sono in fila per diventare AD di qualche colosso dell’informatica/finanziario/raccolta dati: la tecnologia è di pochi, di pochissime persone. Amministra, controlla e determina il potere di chi gioca i giochi più pesanti, i tipi in cima. E’ roba vecchia più del linguaggio scritto. Anzi il linguaggio scritto e i numeri sono un ottimo esempio del ruolo che svolge una nuova tecnologia nella società.

    -Per quanto appassionato della materia non sono uno storico, ma mi lancio comunque nell’affermazione che la cyber-utopia degli anni novanta non ha fallito per il pollice del like, ma ha fallito perchè fortemente antistorico. Stavano aspettando che le mele cadessero verso l’alto. Vedi punto prima.

    -Questi contenuti che ho scritto sono gratis. Ma proprio oggi ho presentato una mia ricerca a un congresso scientifico, cosa che fa parte del mio lavoro. Ho dovuto pagare per partecipare. Posso piangere?

  3. Sai Diego? Ho ‘incontrato’ del tutto casualmente un articolo di Jaron Lanier su una pagina di Repubblica.it qualche anno fa. Mi ha talmente colpito, cose tipo: ‘Ah, ma allora non sono pazzo!’ che mi sono letto i suoi pochi libri tradotti in italiano. Un po’ di Lanier e Nicholas Carr mi hanno rincuorato un casino. Non ero pazzo - forse - e c’era però da fare qualcosa. A me è costata fatica ma nel 2014 ho chiuso definitivamente fb, il mio blog e tutto quello che avevo online, lasciandomi solo una finestra di Instagram, che lo so che è di Zuckerberg, ma per me non è mai stato lui il problema. Dopo due settimane (non due anni, due settimane) mi sono accorto di quanto stupido tempo passassi a parlare del nulla con sconosciuti. Solo dopo mi sono accorto di quanta roba mi fossi cicucciato pensando fosse ‘vera’. Negli anni, guardando le edicole che chiudevano, ho fatto un altro di quei gesti totalmente simbolici. Non ho mai più aperto Repubblica o Corriere punto ittì, ma vado in edicola e me li compro di carta. Non tutti i giorni, ma solo nel week end (per pura tirchieria). Sabato e domenica, anche sotto una tempesta nucleare, al mattino faccio colazione al bar e prima passo a comprarmi il mio bel giornale di carta. Ho ridimensionato parecchio - ma molto parecchio - il tempo che passo sul webbe ritrovando una qualità della vita che era lì, a mezzo metro di distanza e che mi stavo perdendo in cambio di meme e fake news. Proprio come un Testimone di Geova cerco di fare proseliti e dire a tutti i miei amici: ‘Ma perché non provi ad esempio a chiudere il tuo profilo fb per sei mesi (cit. Lanier)? Poi se ti manca lo riapri!’
    Mi guardano come un coglione. Non lo chiuderebbero nemmeno per sei giorni.
    E il bello è che basta molto meno per venirne fuori alla grande.
    Altro che sei mesi! Due settimane, Diego. Due settimane, più facile che smettere di fumare o altro.
    A quelli che mi rispondono: ‘Non posso uscire da fb perché ho tutti i miei contatti di lavoro e le mie amicizie, eccetera eccetera…’ dico solo: cazzate.
    Se sei conciato così male da aver trasferito tutta la tua vita direttamente là, beh: vuol dire che sei proprio messo male. Male-male.
    Come vivo adesso? Da eremita? Non proprio, visto che lavoro nella stessa agenzia di pubblicità e comunicazione da oltre vent’anni. Quel mondo che vedo giorno per giorno ‘peggiorare’ in qualità dei contenuti. Proprio per i motivi che dicevi tu nel tuo pezzo.
    Come vivo? Benissimo. Ho perso amici? Nemmeno uno? Ho perso opportunità di lavoro? Nemmeno una. Nemmeno una che fosse pagata.
    Forse sì, ho perso centinaia di occasioni di lavorare gratis per qualcuno 🙂

    Ciao Diego, a presto.

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