Un tranquillo kebabbaro di paura.

Vicino allo studio ci sono ben due rivenditori di Kebab.

Uno è un locale dall’aspetto molto internazionale. Un posto che potresti trovare nelle zone centrali di Londra o Parigi. Un locale un po’ diddesign, pulito, a suo modo elegante, dove puoi sederti a mangiare e non prendere soltanto il panino-boa d’asporto.
L’altro, è praticamente un terrificante saloon di frontiera. Ci entri, ma non sei mai troppo sicuro di uscirne.
Sano.
Inutile dirti quale dei due sia il nostro preferito. A noi piace quello zozzo.
Quando ai miei soci dico che vado a prendermi il pranzo da quell’altro, da quello international style, mi dicono che sono una fighetta, e al mio ritorno mi ritrovo la scrivania piena di Mini Pony.
Il kebabbo-zozzo è un posto favoloso e lo si capisce varcando la soglia. Fai un passo, entri nel locale, e la scarpa ti rimane appiccicata al pavimento. È come camminare su delle piastrelle ricoperte di nastro biadesivo.
Eppure, quel locale rispetta tutte le norme sanitarie imposte agli esercizi pubblici. Segue alla lettera quelle dettate dall’ufficio di igiene di Mordor, ma comunque le rispetta.
Muri e soffitti sono di un contemporaneo color broccolo bollito, una tonalità amatissima da Paola Marella. L’illuminazione è al neon. Temperatura del colore ambulatoriale. Un paio di lampade da esterni, in plastica e a tenuta stagna, penzolano dal soffitto. Le hanno personalizzate con un tocco di arte contemporanea. Non sono state rimosse quando hanno tinteggiato il soffitto, per cui la parte superiore e i lati sembrano un quadro di Pollock.
La cassa c’è e non c’è. A volte è a destra, a volte è in fondo a sinistra, a volte si usa quella del negozio a fianco, un ferramenta.
Davanti alla cassa, di solito, non c’è nessuno.
Lungo una parete c’è una mensola, dove in teoria si potrebbe mangiare abbarbicati su dei trespoli. Ma quella mensola è occupata dai caschi dei tizi che fanno le consegne a domicilio. Poi ci sono un paio di guide telefoniche del 1994, un cellulare in carica, il tappetino di un’auto, una pila di flyer sgualciti e un calzino tubolare che risponde al nome di Taddeo.
La disposizione degli spazi interni non è per niente user friendly. Dal kebabbaro “internazionale” è tutto immediatamente chiaro. C’è un bancone, sul muro alle spalle c’è una gigantografia cinque metri per tre con tutti i piatti disponibili. Dietro al bancone un uomo e una donna, con cuffietta e grembiule. Vai da loro e chiedi.
Dal kebabbo-zozzo l’unico di cui capisci il ruolo è il tizio davanti al forno, di fianco allo spiedo girevole, intento a fare pizze e kebbabi.
Con lui, nel locale ci sono altre persone. Almeno sei. Impossibile, a prima vista, capire se sono clienti o se lavorano tutti lì. Si muovono, camminano guardano il cellulare, non parlano tra loro, e nemmeno con te.
C’è pure un donna. Trespolata su un trespolo che ti guarda stanca.
Dalle cucine esce anche un bambino egiziano di nove anni con la faccia da furetto.
Ha in mano un banjo.

Quando finisce di suonare i tizi dentro al negozio applaudono, e solo allora si capisce che lavorano tutti lì.
Occupano posizioni lavorative intercambiabili. Quelli che fanno le consegne, se non hanno in testa il casco, possono pendere il tuo ordine, scriverlo su un foglietto, darlo al tipo davanti al forno, andare a prenderti le patatine, portarti da bere. In genere uno si occupa soltanto di un passaggio. Non è detto che quello che ti porta le patatine sia lo stesso che ti porta da bere o che ha preso il tuo ordine. Altrimenti sarebbe troppo facile.
Così come non è detto che quello che ti ha preso i soldi, sia lo stesso che poi ti da il resto.
Il resto è uno sport di squadra. È un’operazione che coinvolge tutti. Perché il resto nella cassa non c’è.
Mai.
Allora tra i presenti parte una contrattazione in arabo, dove vengono aperti tutti i portafogli per cercare i cinque euro che ti servono. Lo fanno urlando.
Magari si stanno dicendo:
- Per favore, mio buon amico, potresti controllare meglio nei meandri del tuo borsello di budello se per caso, per una mirabolante coincidenza del destino, hai cinque euro da anticipare come resto a questo nostro azzimato cliente?
Però se lo dicono gridando, un una lingua che non conosco, con dei toni che a me paiono parecchio incazzosi. Mi sembra sempre che siano lì lì per dirmi che sono un cane infedele e scatenare una jihad contro il mondo del fumetto.
E nel mentre aspetto. Fiducioso. Con le scarpe nel biadesivo.
Il bambino mi fissa suonando il suo banjo.

Con mia grande sorpresa, dal kebabbo-zozzo, oltre a un numero imprecisato di egiziani ci lavorano anche due ragazzi italiani.
Sono sui vent’anni. Una volta ci ho trovato una ragazza, ieri un ragazzo.
L’unica cosa certa è che prima di lavorare dal kebabbaro, lavoravano entrambi come cavie umane per un laboratorio svizzero di neuroscienze.
Parte dei loro cervelli è stata asportata e innestata nel cranio di due Albatros. Hanno liberato gli animali, poi hanno collegato il cervello principale dei due ragazzi con la parte innestata nei due volatili attraverso una connessione wireless.
Ne consegue che i tempi di reazione di Tipo e Tipa dipendono dall’altitudine a cui volano gli Albatros in quel momento.
Mentre aspetto il mio pranzo, sentendomi sempre un pochino a disagio, devo distrarmi.
Allora fisso lo spiedo di carne che rotea.
La carne gira, gira, gira. Un movimento ipnotico. Cado in trance e mi compare Renato Balestra.

Guardo Renato e lui mi sorride. Tranquillizzandomi. Mi dice che il kebab in questo posto è buonissimo perché ha il suo stesso colore di incarnato.
Anzi.
- Qui il kebab è buonissimo perché lo fanno con alcune parti della mia faccia.
- Davvero, Renato?
- Sì… Mangiami. Mangiami. Mangiami…
E io lo faccio, perchè per digerire il kebab del kebabbo-zozzo ci metto meno tempo che a liberare la scrivania da tutti quei Mini Pony.

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