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La grande punizione di Top Of The Lake.

8 settembre 2014 • By

 

A Jane Campion non interessa. Non le frega. Per lei non è importante.
Chissene.
A Jane Campion non importano un sacco di cose, cose che magari tu vorresti trovare in una serie tivvù, ma è lei che ha diretto Top Of The Lake, mica te.
Tra le altre, non le interessano delle cose a dire il vero banali, come fare gli stacchi giusti, o seguire una blanda continuity visiva dove, per esempio, se uno precipita da un dirupo e striscia sulle rocce per venti metri, poi avrà il giubbotto e i vestiti un po’ strappati. Cosine così…
E poi, comunque, si può sempre dire che tutto quello che non c’è, tutto quello che manca, è giusto che manchi ed è giusto che non ci sia perché è un’opera pa-pa-particolare e impegnata. Non è una serie diretta dal primo regista maschio prezzolato schiavizzato dal consueto che passava da lì.
Il paradosso dei nostri tempi è che una “visione diversa” deve avere comunque un valore positivo anche se è oggettivamente pretestuosa e farcita di errori glassati di brutture.
Non è una questione di lentezza o di noia. Mi piacciono la noia e la lentezza. Non è una questione di astio verso la “visione femminile”. Ho un elenco lungo un metro di autrici che mi piacciono un casino. Spero di essere libero di dire che la serietivvù della Campion l’ho trovata orrenda senza essere etichettato come un maschilista. Anzi. L’affacciarsi di un pensiero simile è indicativo di quanto sia minuscolo il suo lavoro su questa serie.
Top Of The Lake è il prezzo che devi pagare per tutte le volte che ti sei divertito guardando qualcosa in tivvù.
E’ ambientata a Laketop, un ridente posticino dove tutti i maschi sono degli stronzi. Tutti tranne uno: un nativo neozelandese coi tatuaggi in faccia. Devo allontanare in modo brusco il pensiero che sia l’unico personaggio maschile positivo perché si allude al mito del buon selvaggio, ovvero il concetto più razzista del mondo.
Spero sia un caso e non una scelta ponderata. Spero non ci sia del dolo. Mi illudo. Tutto quello che c’è in Top Of The Lake è di origine dolosa, fatto-apposta, studiato nel minimo dettaglio per essere forzatamente diverso e fastidioso in modo compiaciuto.
Nella forzatura estrema della narrazione usata a scopo di pretesto, il tema morale della Campion è uno splendido esempio di razzismo di genere.
Passa, in modo frontale e non fraintendibile, che tutti gli esseri umani di sesso maschile sono delle creature orrende. Che è un po’ come dire che tutti i neri hanno il ritmo nel sangue e giocano bene a basket.
Al tempo stesso, ed è questa la cosa strana, le donne della Campion hanno tutte bisogno di aiuto, di una guida che riesca a mettere ordine nella loro estrema confusione.
Non esistono “donne forti”, realmente indipendenti, autonome nelle loro scelte. Anche se sono un maschio, e teoricamente per la Campion sono una merda senza diritto di parola, questa definizione della donna mi offende. E parecchio anche.
Top Of The Lake è la punizione per tutte le volte che hai visto CSI o Beautiful. E vieni punito nel modo più duro possibile. Non a caso, la protagonista è interpretata dalla figlia di Ron Moss, tutto torna, in una perversa forma di contrappasso narrativo.  (No. Non è vero. Mi hanno informato male, non ho controllato, ho fatto una cazzata. Quindi puoi bacchettarmi sulle dita che ne hai diritto. Grazie a Rico che mi ha fatto notare l’errore.)

Tutti i personaggi in scena hanno delle personalità borderline, chi più chi meno. Tutti vivono nel disagio, in un luogo dove non esistono i colori caldi, dove la natura è la muta testimone del triboli e del degrado umano. A Laketop tutti sono dei criminali, ma se sei brutto o sporco hai il permesso di farti inquadrare nudo.
Poi c’è Holly Hunter, santona psicotica che trascina nel niente delle disadattate che dicono pene al posto di dire cazzo e formano un gineceo nei container, dando parecchio fastidio al maschio più bastardo di tutti.
Il personaggio della Hunter: GJ è favoloso. Una santona foriera di frasi fatte e massime filosofiche da Baci Perugina shabby chic. Guida spirituale suo malgrado, tipo La Sfinge di Mystery Men o Forrest Gump quando correva. Infatti, quando la santona è stanchina, le molla tutte, prende il suo trolley e se ne va.
Quasi tutti, a vanvera, hanno accostato Top Of The Lake a Twin Peaks, dimostrando di non aver capito un cazzo di Twin Peaks e di Lynch in generale.
L’unico punto di contatto è una scena in un bar, dove ti aspetti che da un momento all’altro entri la Signora col Ceppo, ma non entra perché altrimenti dovevano pagare i diritti.
Dato che è più importante inquadrare dei collant strappati sui piedi, o dei tipi di spalle nella foresta, alla Campion non interessa nemmeno svolgere la trama in modo compiuto.
Quindi a un certo punto la miniserie finisce.

Tutto quello che non c’è, tutto quello che manca, è giusto che manchi ed è giusto che non ci sia perché è un’opera di Jane Campion.
E si sa, è più diversamente figo mollarti lì a guardare il lago e la nebbia, piuttosto che fornirti i più banali ed essenziali elementi narrativi.

 


Scrittura, Serie TV

Mi ero dimenticato di Katee Sackhoff.

2 settembre 2014 • By

 

Ho visto la saga di Battlestar Galactica quando erano gli anni in cui bisognava vederla. Forse è stata una delle prime serie che ho seguito in contemporanea, attendendo in fregola gli episodi sottotitolati di fresco.
Kara Thrace era un gran bel personaggio. Tra un “what am I” e l’altro, il personaggio interpretato da Katee era atterrato con il suo Viper in mezzo alle mie figure femminili preferite.
E li è rimasta.
Per un po’.
Non ho seguito la carriera della Sackhoff successiva a Battlestar, avevo altre cose da fare e altre cose da vedere. Avevo anche altre figure femminili da rincorrere con passione, Christina Hendricks di Mad Men, per esempio.
Poi, con estremo e colpevole ritardo, ho iniziato a seguire The Big Bang Theory.
E a un certo punto.
BAM!
Eccola lì.

Stagione 3, episodio 9.
Nella fantastica forma di scrittura postmoderna alla base di The Big Bang Theory, Katee Sackhoff interpreta sé stessa, collocandosi all’interno dell’immaginario erotico di Howard Wolowitz.
Lui, da buon nerd per definizione, è un fan di Battlestar Galactica e ha elaborato il suo archetipo erotico proprio con il personaggio di Kara Thrace.
Howard la “richiama” quando si autosollazza nella vasca da bagno.

Ne nasce una discussione, dove lei/personaggio/figura immaginaria, contesta ad Howard il fatto di preferire fare del sesso in solitaria con una sua fantasia piuttosto che con una ragazza reale, Bernadette.
Katee assume così il ruolo dell’ istanza psichica, come Elvis per Clarence Worley in Una vita al massimo, o l’Armadillo (e gli altri personaggi-funzione-psichica) di Zerocalcare.
Il rapporto narrativo, tra chi evoca la figura e la figura evocata, è articolato e complesso. Serve a strutturare in modo dialettico quello che, altrimenti, si potrebbe raccontare soltanto attraverso un flusso di coscienza o dei pensieri diretti. Inserendo e costruendo un rapporto in contrasto con una figura immaginaria, l’intero processo diventa attivo e non passivo, diventa parte della narrazione, oltre a essere molto divertente.
Katee Sackhoff nella testa di Howard Wolowitz è anche una sorta di esca-nerd, alla quale abbocco subito appunto perchè sono un nerd.
Oltre a essere pienamente giustificabile da un punto di vista narrativo, Katee Sackhoff è una figura dell’immaginario erotico non solo di Wolowitz, ma anche di tutti quelli che seguono la serie.
Me compreso.
Io mi ero dimenticato di quanto fosse sexy.

Quindi, grazie Big Bang Theory per il promemoria.
Katee Sackhoff torna dai ragazzi di Pasadena una seconda volta, nel quarto episodio della quarta stagione.
Non è una semplice ripetizione della situazione della vasca da bagno, gli autori giocano di amplificazione.
Il contesto di partenza è lo stesso, Howard Wolowitz evoca la sua figura erotica principale per elaborare delle questioni riguardanti il sesso.
Questa volta lei indossa la tua da pilota di Viper, citazione diretta da Battlestar, e non è da sola. Con lei c’è George Takei. In persona.

La tipa in mezzo è una producer-giornalista ammericana

Takei non interpreta Sulu di Star Trek, e non è una figura vintage, evocata, per esempio, dal Wolowitz fanciullo. È il Takei contemporaneo, post Sulu, post coming out. Si inserisce nella continuity di Big Bang Theory sulla linea narrativa legata ai dubbi sull’eterosessualità di Wolowitz e il suo rapporto particolare con Raji. (Mai ammesso da entrambi)
Al tempo stesso, le due figure psichiche interagiscono tra loro in modo realistico. Svestono i panni dei personaggi e parlano della loro realtà di attori. Discutono del loro rapporto con i fan alle convention di fantascienza, cose così… Pur essendo, comunque, delle figure nella testa di Wolowitz.

Questo è triplo tolup narrativo, va oltre la rottura della quarta parete e del personaggio che parla direttamente con lo spettatore. Takei e Katee nella testa di Wolowitz camminano su un territorio minato, dove fare una cazzata e svaccare tutto è una questione di millimetri.
Perché non basta citare e non è sufficiente mettere assieme degli elementi pop, per essere sicuri di ottenere un buon risultato.
Il postmoderno morde, se vuole. Ma gli autori di Big Bang Theory sanno tenere la bestia al guinzaglio.


Serie TV, Televisione

The Blacklist

8 maggio 2014 • By
Spoiler minimi.

Devo delle scuse a James Spader.
Sapevo che era un buon attore, ma non l’avevo mai messo tra i miei preferiti. Non conosco a menadito la sua filmografia, ho visto cinque o sei dei suoi film e manco mi ricordavo che c’era in Wolf. (1)
Perdonami, James. Rimedierò.
Me lo ritrovo in The Blacklist e, al di là di tutto il male che si può dire della serie, appena entra in scena lui lo trovo grandioso. Sarà il personaggio, sarà il contesto, sarà che in questo telefilm recita accanto a dei cuccioli, ma The Blacklist serve a farti capire quanto cazzo è bravo James Spader.
Invece, i capelli di Megan Boone sono più bravi di lei a recitare.
Dentro alla serie c’è qualcosa. L’ho avvertito dal pilot, e ho continuato a percepirlo per tutti gli episodi a seguire. Nonostante tutto, nonostante il fastidioso bipolarismo della narrazione ho dato molto più di una chance a The Blacklist.
Ma ora basta, non ce la faccio più. Con l’episodio 16, Il mio patto di complicità ha fatto ciao ciao ed è andato in Florida a prendere il sole. Addio. Statemi bene.
Nella prima infornata di episodi di The Blacklist c’erano delle cose piuttosto disturbanti per una serie televisiva. Roba rara. Cattiva. Profondamente noir. Veniva introdotto un “mondo criminale” postmoderno, contemporaneo, esagerato. Figo.
La narrazione si divide in due linee distinte e separate.
Il mondo di Reddington, con tutte le sue figate e i suoi segreti.
Okay, va bene, IL segreto con IL maiuscolo è prevedibile quanto le scene di: “Johnny dalla Rubizza Spingarda Scalda Milf Assatanate in Antartide.” Lo è dalla prima puntata. È tanto prevedibile che ti chiedi: ma se a capirlo ci è arrivata anche una casalinga di Voghera ciclotimica, come mai non ci arrivano quei fighissimi agenti dell’FBI?
Fosse ancora vivo J Edgar Hoover li licenzierebbe tutti.
A parte IL segreto, il resto è sempre stato molto interessante, almeno per me. Uno spaccato non consueto sul mondo di Red, uno dei most wanted dell’FBI. I suoi intrallazzi, i suoi contatti, la globalizzazione del crimine di alto livello, sangue, viuuulenza e altre cose.
Accanto a quel lato narrativo c’è il mondo dell’FBI, con tutte le sue logiche legali e procedurali.
Per questioni di sceneggiatura, di caratterizzazione dei personaggi, per banali questioni di capacità attoriali, per diversi e innumerevoli motivi, in The Blacklist quelli dell’FBI, tutti quanti, fanno la figura dei babbazzi.
Babbazzi al cubo, senza però che ci sia una scelta consapevole degli autori nel trasformarli in tanti Roscoe P. Coltraine vestiti da Armani.
Aggiungici la linea narrativa su Tom Keen, il marito discolo, gestita in modo a dir poco surreale, ecco perché all’episodio 18 la serie svacca e deraglia attraversando a tutta velocità il Cassandra Crossing.
No, non c’è un vero e proprio salto dello squalo in quell’episodio lì. Peggio. Almeno il famoso Salto dello Squalo si vedeva, era visualizzato, vedevi davvero Fonzie che saltava lo squalo.
Nell’episodio 18 di The Blacklist succede di peggio. C’è un salto dello squalo per sentito dire.
Un salto dello squalo indiretto, raccontato.
Vabbè.
Purtroppo la mia perversione mi costringe a seguire lo stesso The Blacklist, più che altro per controllare se si avverano tutte le mie previsioni sulla trama orizzontale.
Per ora è andata così, e non lo so mica se è un bene o un male.

(1) Aneddoto personale.
A proposito di Wolf. Durante la conferenza stampa di un editore per cui lavoravo in quel periodo, il direttore editoriale, presentando uno speciale a tema licantropi disse: “blablabla perché secondo noi Wolf è il film dell’anno!”
Ecco. Era il 1994. L’anno in cui uscì il Corvo.
Sì. Quella casa editrice ha smesso di fare fumetti.
No. Quello speciale non era roba mia.


Serie TV, Televisione

Barry Weiss, il mio eroe.

24 aprile 2014 • By

Barry Weiss è il mio preferito tra tutti quelli che fanno Affari al Buio.
(In teoria dovrei avere una certa stima per i tabbozzi in canotta, ma proprio non ce la faccio…)
Mi piace come si veste Barry, ha un parco macchine invidiabile ed è l’unico secondo me ad avere un sacco di stile.
Tra le sue auto, la mia preferita è la Cadillac customizzata nera con le fiamme del 1946, e al secondo posto si piazza il furgone pick up rosso Ford del 1940.
Tutta la collezione motorizzata di Barry la puoi vedere cliccando qui.
Non ho trovato un sito con la gallery delle sue camicie, meno male. Altrimenti ci passavo due ore a scegliere la mia bi-colore preferita.
Insomma, poche ciance: quando sarò vecchio voglio essere come Barry Weiss.
Pelato, ma come Barry Weiss.
Nato nel 1951, spesso confuso con il suo omonimo produttore musicale, Barry è un collezionista, un tipo eccentrico, diventato famoso con Affari al Buio.
Il suo patrimonio è stimato in circa 8 milioni di dollari, ma non li ha messi assieme con il programma televisivo, arrivano dall’azienda che aveva con il fratello Joey, la Northern Produce. Vendono frutta e verdura in California.
Barry ci ha lavorato per 25 anni, poi ha ritirato la sua quota e adesso si gode la vita.
Collezionando roba.
Frutta e verdura non sono state il suo unico business. In passato ha bazzicato il mondo del glam rock, facendo il produttore.
Anni 80. Spalline. Capelli lunghi.
Eccolo qui.

Lui è quello a sinistra. La tipa censurata a destra non ho idea di chi sia e del perchè gli hanno messo il rettangolo di Cronaca Vera sulla faccia.
Quindi, Barry non è figo soltanto adesso.
È sempre stato figo.
Ecco perché è il mio eroe.


Serie TV, Televisione

House of Cards, i primi due episodi.

14 aprile 2014 • By

C’è Kevin Spacey che fa Kevin Spacey. E va bene, eh, ci mancherebbe.
C’è anche Robin Wright non più Penn, che fa sua moglie. E poi ci sono gli altri, tra cui Fincher che produce e dirige i primi due episodi. La serie è scritta da Beau Willimon, che mi dicono essere drammaturgo e non semplice sceneggiatore.
E si vede.
Prima cosa: Kevin Spacey rompe la quarta parete e si rivolge al pubblico, televisivamente è molto Brecht e molto poco: La casa di Topolino. Accettare la metafinzione della rottura della quarta parete, un luogo narrativo-televisivo dove Kevin che parla con me coesiste con le risate registrate di Big Bang Theory, se ci pensi, è roba da far saltare i neurorecettori.
Seconda cosa: la politica americana. Come mi è già successo vedendo Lie To Me, la gestione dell’opinione pubblica, del giornalismo e di tutti gli annessi e connessi alla politica americana, vista da me, italiano post bunga bunga, fa ridere un sacco.
In modo amaro.
Siamo in un contesto politico dove basta dire la parola sbagliata in pubblico per giocarsi completamente la carriera.
Io, italiano post fuga in Libano, post servizio qualunque di Report, post olgettine, post scandalo quello che ti pare, la politica americana delle serie televisive la percepisco come un fantasy per 12enni.
Credo che per loro sia una questione di credibilità con l’elettorato ammerigano.
Mi rendo conto ora che: “credibilità con l’elettorato” in un contesto politico come il nostro dove ci sono i grillini vada oltre il fantasy. Siamo, più o meno, nella fantascienza sperimentale, ma tipo che Greg Egan in confronto è un banalotto romanziere cyberpunk da self publishing.
House of Cards, sulla carta, parla degli intrighi e dei complotti della politica. Dei giri e degli intrallazzi che ci sono dietro, davanti, di fianco, sopra e sotto la politica. Quella vera.
La politica deve proprio essere una brutta bestia, visto che questa è la versione americana di una serie inglese. Una bruttabestia adattabile e franchisabile.
Ma la vera forza della serie non sta nello scoprire l’acqua calda. Non è nell’intrallazzo, nei giochi di potere o nel mondo delle strette di mano, dei sorrisi e delle pugnalate.
House of Cards muove delle leve molto più psicologiche che politiche. Lavora su un aspetto universale, umano, quasi quotidiano.
Lascia perdere il contesto, dimenticati i partiti, il presidente, il congresso e Washington DC.
House of Cards parla di un uomo che non ha avuto ciò che gli era stato promesso.
La promessa può essere fatta dalla vita o dalle persone, non importa.
Quello che conta è la mancata realizzazione.
House of Cards parla di quello che ti succede dentro quando viene scelto un altro al tuo posto. Per fare qualsiasi-cosa, non soltanto il segretario di stato.
Parla delle tue aspettative che vengono tradite, del successo ottenuto da qualcuno che non sei tu.
Questa situazione è capitata a tutti. Nessuno escluso.
Ecco perché l’immedesimazione con Spacey-Perdente è così forte. Trascende il contesto narrativo, è una partecipazione empatica, umana, umorale e intima.
Poi, ovviamente, come è giusto che sia, arriva il lato aspirazionale.
Perché Spacey è si un perdente, come uno di noi, ma è al tempo stesso anche un uomo di potere e di grande esperienza.
Spacey decide di riversare la sua tremenda vendetta contro chi l’ha tradito.
Ma no, non è esatto. Non è nemmeno un tradimento vero e proprio. Hanno scelto un altro, tutto qui. Hanno cambiato idea. Capita. No?
Eh, sì, che ci vuoi fare, sarà per un’altra volta.
Un’altra volta un cazzo.
Spacey decide di riversare la sua tremenda vendetta contro chi ha scelto di mettere un qualcun’altro nel posto che voleva lui.
E anche qui. Fai tu i tuoi parallelismi. Politica, vita, professione, carriera, quel che ti pare.
Nella serie l’elemento aspirazionale diventa colossale perché, se è vero che tutti noi ci siamo trovati nella posizione di Spacey, è anche vero che in pochi o nessuno avevano il potere necessario per vendicarsi.
Spacey ce l’ha. Eccome se ce l’ha.
Inizia a farlo, con risultati immediati, a metà del primo episodio.
Sono curioso di vedere che cosa combina nei 13 episodi che compongono la prima stagione.
Comunque, non mi si dica che basta mettere una star di Hollywood per fare una buona serie televisiva. C’è Robin Williams in The Crazy Ones a dimostrare l’esatto contrario.