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Un pranzo di lavoro.

30 aprile 2012 • By

L’altro giorno ho preso la muturetta e sono andato a Chinatown.
Non so se lo sai, ma sto facendo un fumetto ambientato in via Paolo Sarpi, con protagonista cinese. Conosco bene quella zona perchè ci sono nato, ma si sa, le cose cambiano in fretta in questa Milano che arranca verso l’expo.
Sono tornato laggiù per documentarmi, per guardarmi attorno, per capire alcune cose, per respirare gli odori della chinatown milanese, che è uno dei miei quartieri preferiti.
Ho un’adorazione per i quartieri cinesi.
Ho parcheggiato la muturetta e mi sono infilato nelle viuzze laterali. Ho sbirciato un po’ nei cortili e nei negozi. Ho guardato quello che accadeva attorno a me.
Documentazione. Quella vera.
Poi, dopo un po’ di giringiro, come spesso accade in questi casi, la mia meta ha trovato me.
Non sapevo che dovevo andare lì, fino a quando non mi ci sono trovato davanti.
Una trattoria cinese.
Piccola. Con insegna in ideogrammi, lanterne rosse, una manciata di tavoli all’interno e una clientela rigorosamente asiatica.
Avevo fame. Sono entrato.
I pochi clienti hanno smesso per un momento di mangiare e mi hanno guardato, con le bacchette immobili a metà strada tra il piatto e la bocca.
La cameriera mi ha guardato. L’altra cameriera mi ha guardato. Impossibile capire se mi guardavano bene o male. Non so. Guardavano me e basta.
Io guardavo una vaschetta piena d’acqua messa sul bancone. Dentro c’erano delle piccole anguille vive che sguazzavano. Piccolissime, simili a minuscoli serpentelli. Accanto, una zuppiera piena di uova sode nere.
Ero entrato in “Grosso guaio a Chinatown”.
Cerco una ragazza cinese con gli occhi verdi, preparandomi a combattere.
Invece no.
Non arriva neanche Egg Shen a parlarmi del sangue nero della terra.
Mi siedo e apro il menù. Italiano pressapoco, ma chi se ne frega.
Arriva la cameriera. Anche lei italiano pressapoco, ma non importa.
In quel momento potevo essere un una chinatown qualunque, non per forza quella milanotta, potevo essere ovunque nel modo dove è presente una comunità cinese.
Il menù non era occidentalizzato.
Ed era proprio il menù che stavo cercando. Mi sono fatto spiegare alcune cose. A fatica, ma volonterosamente, mi sono state spiegate.
Non erano i soliti piatti della cucina cinese adattati per i palati occidentali. Erano piatti veri. Quelli che dei cinesi veri stavano mangiando, lì, davanti a me, guardando un telegiornale di Pechino da una tele arrampicata vicino al soffitto.
Ordino.
Attenzione. Se hai lo stomaco debole non andare avanti a leggere.
Il mio pranzo è stato:
Vero riso alla cantonese.
Quello con la cotica di maiale caramellata, e non con i dadini di prosciutto cotto Rovagnati.
Un piatto corposo, forse un po’ pesante per un pranzo di lavoro, ma dal sapore deciso e appagante.
Lingue di anatra affumicate.
Sapore molto, molto, intenso. Difficile da paragonare a qualcos’altro. L’affumicatura e il loro essere lingue di pennuto danno al piatto un sapore di… Di… Aia.
Ravioli speciali.
Rotondi, spessore della pasta doppio rispetto a quelli normali. All’interno una farcitura di carne di maiale, verdurine e brodo. Dei “dumplings” quindi, molto simili a quelli che ho mangiato a New York, ma con meno brodo all’interno.
Un buon pranzo di lavoro, e se riesco a ritrovare quella trattoria ci tornerò.
La prossima volta mi farò coraggio e ordinerò anguille vive e uova nere.